Caritas e giustizia
di Marco Ivaldo
Vorrei fare interagire fra loro due logiche, o due economie (intese come concezioni della vita dotate di una propria interna coerenza), che designo la logica dell’equivalenza e la logica del dono, cioè la logica ispirata alla virtù della giustizia e quella ispirata all’atteggiamento della caritas. Una volta stabilita la loro specificità vorrei sottolineare come queste logiche o economie possano collaborare.
1. Mi occupo dapprima della giustizia. Aristotele definisce la giustizia come “la sola delle virtù che sembra essere un bene altrui, in quanto riguarda gli altri: essa infatti compie ciò che è utile agli altri, sia ai capi sia alla società” (Eth. Nic. 1130 a). Con la giustizia emerge perciò immediatamente l’orizzonte comunitario, il legame accomunante: la giustizia è una modalità virtuosa di dividere e assegnare i beni fra le persone e di farle eguali fra di loro equilibrando vantaggi e svantaggi. In questo senso, direi, la giustizia è un certo bene comune, è la virtù che pone nella giusta relazione reciproca gli individui e li unisce in una comunità. Non va dimenticato poi che per Aristotele assai importante è l’equità (epieikeia), che è la virtù di adattare la legge a casi particolari e fa parte della giustizia politica, e che per lui importantissima è l’amicizia (philia): dove c’è giustizia può mancare l’amicizia, ma dove c’è amicizia c’è anche giustizia. La giustizia non esaurisce perciò l’orizzonte della vita della polis: in particolare la comunità politica si regge su una forma di amicizia che ha per fine l’utilità che dura per tutta la vita. Oggi diremmo che la giustizia non basta da sola a costruire una società bene ordinata, la “buona società”, se manca la saggezza e se difetta quell’altra forma del legame intersoggettivo che viene designata come “amicizia civile” e che scaturisce da virtù come la solidarietà, la liberalità, la magnanimità, la generosità, la dedizione (qui abbiamo una apertura della logica della giustizia a quella che ho designato economia del dono).
Nella tradizione la giustizia viene declinata non solo come honeste vivere e neminem laedere ma anche come suum cuique tribuere, “dare a ciascuno il suo”. Mi fermo solo su quest’ultimo punto. La giustizia si presenta con questa sua declinazione come una forma trascendentale della prassi: come il programma di un retto fare le parti (Ur-teilen) fra i membri di una società. Si pone la questione di determinare che cosa sia allora quel “suo” che è dovuto a “ciascuno”: quali sono il bene e il complesso di beni cui “ciascuno” ha diritto. Qui deve agire la ragione pratica, la ragione di ciò che è giusto, e perciò la riflessione morale e politica. La giustizia è un programma della ragione pratica, che è definito nella sua intenzionalità trascendentale (dare a ciascuno il suo), ma è da re-inventare o determinare volta a volta nei suoi contenuti determinati (che cosa è il suo proprio di ciascuno?). L’enciclica Centesimus annus parlava di una giustizia superiore a quella legata alla logica dello scambio di equivalenti, e che è fondata sul principio per cui “esiste un qualcosa che è dovuto all’uomo perché è uomo” (n. 34). “Qualcosa” è dovuto all’uomo perché è uomo prima della (=indipendentemente dalla) attesa di una prestazione corrispondente da parte di colui che riceve ciò che gli dovuto. La questione che si pone è che cosa sia dovuto all’uomo in quanto tale, questione che rinvia al tema maggiore: “Chi è l’uomo”, “Che cosa è l’uomo”. E’ noto che questa domanda per Kant riuniva in sé quelle della teoria, della morale, della religione. Anche da questa apertura oltre lo scambio di equivalenti verso la domanda antropologica vediamo che la logica della giustizia è aperta oltre se stessa, o allude a una ‘giustizia’ che consideri gli uomini non solo come eguali (come membri del genere umano), ma anche come differenti, ciascuno con caratteri, bisogni e desideri specifici.
Paul Ricoeur ha evidenziato che la regola della giustizia, con la sua logica di equivalenza, è quanto di più alto ha conseguito la morale umana, solamente umana. Ciò si vede già nel sistema giudiziario, e in particolare nel diritto penale. Qui due elementi sono decisivi: tutto nel corso del processo è basato sull’argomentazione; la sentenza giusta è quella che è proporzionale alla gravità del delitto. I nostri codici sono il frutto plurimillenario di sforzi per stabilire questa correlazione ragionevole fra la scala dei delitti e la scala delle pene: qui è la logica dell’equivalenza, con tutta la sua gloria, ma anche con tutta la sua severità, che si impone. La giustizia penale privilegia l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e, a differenza dell’amore, non tiene conto delle differenze fra le persone quando si argomenta pro o contro un imputato a proposito di una imputazione specifica , ovvero ne tiene conto solo nel momento della pronuncia della pena – ecco un altro aspetto a proposito del quale si apre una dialettica fra la logica della giustizia e la logica della caritas.
Se prendiamo poi in considerazione la giustizia sociale, in particolare l’idea di giustizia distributiva, possiamo farci una certa nozione del giusto e dell’ingiusto secondo la logica dell’equivalenza. L’idea di giustizia distributiva poggia sulla concezione della società come una ripartizione di ruoli e di compiti, di diritti e di doveri, di svantaggi e di vantaggi, di costi e benefici. La società è l’insieme degli individui in cui sono distribuite le parti; d’altro lato è proprio mediante tale ripartizione di parti che gli individui prendono parte, hanno parte attiva all’insieme. E’ qui che interviene la giustizia come la forza delle istituzioni che presiedono a tali operazioni di ripartizione (di parti e fra le parti) secondo criteri di equivalenza – fra diritti e doveri, benefici e costi, vantaggi e svantaggi - e sulla base dell’eguaglianza. La virtù della giustizia fa le parti in maniera retta, rende a ciascuno ciò che gli è dovuto (la determinazione del ‘dovuto’ è, come abbiamo visto, un problema della ragione morale) . Rendere a ciascuno ciò che gli è dovuto significa dare ad ognuno ciò che è dovuto anche a ogni altro, trattare ciascuno su una base di eguaglianza.
Ora però, come è possibile salvare il principio di eguaglianza nei casi, assai frequenti, di distribuzioni diseguali in materia di redditi, di patrimoni e di servizi (cioè beni di mercato), in materia di sicurezza, protezione sociale, educazione, e ancora in materia di autorità e di responsabilità, e infine di onori e obblighi? Quali sono le ripartizioni ineguali meno ingiuste di altre? O anche: sono concepibili ineguaglianze giuste? Questo problema ha condotto all’idea di una eguaglianza proporzionale, distinta dall’eguaglianza aritmetica: una ripartizione sarà giusta quando le parti (ricevute) saranno proporzionate all’apporto sociale delle parti (esercitate). Rawls ha sostenuto che sarà giusta la divisione che, benché ineguale, equilibrerà l’aumento dei vantaggi ai più favoriti – per ragioni di produttività e per prestazioni sociali – con la diminuzione degli svantaggi dei meno favoriti. Si tratta del suo “principio di differenza”: le ineguaglianze sociali ed economiche devono essere regolate in modo che vadano al maggior beneficio di chi è meno avvantaggiato e siano legate a cariche e posizioni aperte a tutti in condizioni di equa eguaglianza di opportunità. L’oggetto principale della giustizia è perciò per Rawls il sistema di regole intorno a cui si può sviluppare la cooperazione di una pluralità di individui, e con cui si può soddisfare l’esigenza che la distribuzione dei costi e dei benefici sia tale da permettere la massima soddisfazione dei bisogni e sia accettabile da tutte le parti in causa. Massimizzare la parte minimale: questa è la versione moderna del concetto di giustizia proporzionale, che sentiamo più vicina al nostro senso morale della giustizia.
2. Passo adesso alla economia del dono, o alla logica della gratuità e della sovrabbondanza, diversa dalla logica dell’equivalenza. Pascal – mettendo in luce l’eccedenza della carità – ha scritto: “Tutti i corpi insieme, e tutti gli spiriti insieme, e tutte le loro produzioni, non valgono un minimo movimento di carità […]. Da tutti i corpi e spiriti non si potrebbe tirare fuori un movimento di carità, questo è impossibile, di un altro ordine, sovrannaturale” (Pensieri, ed. Brunschvicg, sez. 12).
Quella della carità è la logica della sovrabbondanza che si esprime nel canto di lode, di benedizione, di esultanza, in quella che Kierkegaard chiama la “poesia del religioso”. La Prima lettera ai Corinzi offre un celebre esempio di questo linguaggio: “La carità è paziente, è benigna la carità; la carità non invidia, la carità non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non tiene in conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa” (13, 4-7).
Nella Scrittura l’amore viene comandato (Amerai Dio, amerai il prossimo tuo), e questo comando ha una configurazione paradossale, perché viene comandato un sentimento. Si può sensatamente comandare un sentimento? Kant risponde che nel comandamento dell’amore si tratta dell’”amore pratico”, che viene differenziato dall’amore “patologico”, e che può ben essere oggetto di un comando (cfr. Critica della ragione pratica, parte I, lib. I, cap. 3). Ricoeur spiega a sua volta che il comandamento dell’amore sarebbe un comandamento che non è una legge, cosa che viene ad esempio espressa dalla parola che l’amato rivolge all’amata nel Cantico dei cantici: “Tu amami!”. Il comandamento dell’amore è un comandamento che l’amore rivolge a se stesso, un comandamento dell’amore mediante l’amore e che contiene la condizioni della sua obbedienza nella tenerezza della sua intimazione.
Niente di più contrario al genio dell’amore che contrapporre eros e agape: la dinamica dell’amore consiste nella sua agilità di salire o scendere i suoi diversi livelli, che possono venire espressi con eros, philia, agape, tre termini, o stati amorosi che si richiamano mutuamente e si designano analogicamente l’un l’altro. Ogni forma d’amore può servire da metafora di ogni altra: possiamo leggere il Cantico sia come un canto nuziale che come un poema mistico, e troviamo risonanze erotiche nei poemi mistici, anche in quelli più spirituali.
La logica della sovrabbondanza – innestata dall’amore - significa: dare di più di quel che è dovuto, più di quel che è (pur) giustamente preteso. Dare senza esigere ritorno. La logica della equivalenza è quella della simmetria, quella del dono è la logica della asimmetria tra dare e ricevere. Paolo costruisce la sua cristologia su questa logica della sovrabbondanza, o dell’eccesso: “Perché se per il fallo di quell’uno la morte ha regnato mediante quell’uno, tanto più [a maggior ragione] quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia, regneranno nella vita per mezzo di quell’uno che è Gesù Cristo” (Rm 5, 7). “Dove il peccato è abbondato, la grazia ha sovrabbondato” (Rm 5, 20).
Questa logica della sovrabbondanza e dell’eccesso si esprime ad esempio in modo eminente nel comandamento di amare di nemici: “Voi avete udito che fu detto: ama il tuo prossimo e odia il tuo nemico, ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate quelli che vi perseguitano” (Mt 5, 43). Questa logica relativizza anche la Regola aurea, che è espressiva della logica dell’equivalenza e suona nella sua formulazione negativa: “Non fate agli altri quel che non volete sia fatto a voi stessi”. Leggiamo a questo proposito in Luca: “E se amate quelli che vi amano, quale grazia ne avete? Poiché anche i peccatori amano quelli che li amano […] Ma amate i vostri nemici, e fate il bene senza sperare alcunché” (6, 32-35). Dare senza attesa di contraccambio: questa è in definitiva l’economia della caritas, la logica del dono.
3. Cerco adesso di vedere come le due logiche, dell’equivalenza e del dono, possano cooperare.
La carità non può sostituire la giustizia, né sul piano della giustizia penale né sul piano della giustizia sociale. La questione della creazione di un giusto ordine sociale non può essere elusa, e essa non può venire risolta dalla attività caritativa organizzata. D’altro lato non esiste un ordinamento statuale che possa rendere superfluo il servizio dell’amore, dato che ci saranno sempre sofferenza e solitudine che necessitano di consolazione e di aiuto. La carità eccede la giustizia, perché amare è donare del “mio” all’altro senza attesa di un ritorno. Al tempo stesso la carità non è mai senza giustizia, la quale richiede di dare all’altro ciò che è “suo”, ciò che gli è “dovuto” in ragione del suo essere e del suo agire, e non posso donare all’altro del “mio” senza avergli riconosciuto ciò che gli è dovuto secondo giustizia, ciò che deve essere “suo”. Per il primo aspetto la carità supera la giustizia, con la sua logica della equivalenza, nella logica del dono e del perdono. Per il secondo aspetto la carità esige la giustizia, il riconoscimento dei diritti legittimi degli individui e dei popoli: la giustizia è la prima via della carità.
Si aprono allora due vie. La prima concepisce l’amore come il motivo profondo della giustizia, e la giustizia come il braccio efficace dell’amore. Questa tema si presenta nella cosiddetta piccola escatologia di Matteo 25: “Perché ebbi fame, e mi deste da mangiare; ebbi sete, e mi deste da bere […] Allora i giusti risponderanno: Signore, quando mai t’abbiamo veduto aver fame e t’abbiamo dato da mangiare? O aver sete e t’abbiamo dato da bere? […] E il Re, rispondendo dirà loro: In verità vi dico che in quanto l’avete fatto a uno di questi minimi fratelli l’avete fatto a me”. E’ la via dell’amore pratico di Kant: l’amore costituisce la motivazione della giustizia, e la giustizia è ciò che rende operativo l’amore. Qui pensiamo una convergenza e una compenetrazione delle due economie della carità e della giustizia.
La seconda via è invece quella che custodisce la sproporzione fra i due ordini della carità e della giustizia e cerca di renderla feconda. Si tratterebbe di metter l’accento sul carattere sovrabbondante dell’amore, e sul suo carattere eccessivo e sovversivo in rapporto alla logica dell’equivalenza, e cercare di imprimere sulla nostra pratica della giustizia il marchio di questo carattere. Abbiamo visto ad esempio che la logica del dono, del dare senza ritorno, del porgere l’altra guancia, relativizza la Regola aurea, come modello perfetto di reciprocità ed equivalenza. Tuttavia si può anche dire che il comandamento d’amare non abolisce questa Regola, ma la riconduce verso il suo vero significato, liberandola da una sua interpretazione utilitaria – “io di do affinché tu mi dia” – verso una sua interpretazione disinteressata – “poiché tu mi hai dato anche io ti do”. Così può avvenire anche a proposito della giustizia: l’amore deve destabilizzare una concezione puramente utilitaria della giustizia – che mira a rendere accettabile l’arricchimento dei più favoriti con il vantaggio dei meno favoriti – e ri-orientarla verso la generosità. L’idea di fondo è quella di essere giusti non per assicurare l’equilibrio degli interessi bene intesi, ma perché il meno favorito è in ultima analisi una persona singolare, insostituibile, non intercambiabile.
L’amore eleva la giustizia distributiva al di sopra di una semplice delimitazione del mio e del tuo, e la orienta verso una idea di cooperazione, verso un sentimento di mutuo indebitamento: noi siamo originariamente in debito verso un altro, siamo in debito gli uni verso gli altri. Potremmo anche dire che l’amore rompe le frontiere provvisorie, i limiti culturali inevitabili, le figure storiche necessariamente limitate della giustizia. Ad esempio: si è sempre saputo che le persone umane non erano delle cose, delle merci permutabili, ma nonostante questa consapevolezza non si sono per lungo tempo collocati gli schiavi nella categoria delle persone. E’ qui che l’amore attivo e concreto ha rovesciato il muro della separazione: in Cristo, dice Paolo, non c’è più né ebreo né greco, né libero né schiavo, né uomo né donna. Tuttavia la applicazione concreta di questa idea di radicale eguaglianza fra culture, condizioni sociali, ruoli sessuali ha richiesto un lungo cammino storico, e sono stati necessari atti innovativi, talora illegali rispetto alle legislazioni vigenti, per incarnare nel concreto tale idea. Pensiamo a Francesco, che applica sine glossa i comandamenti esorbitanti, eccessivi del Discorso del monte, o a Gandhi, che trasforma la non violenza in arma politica, o a Martin Luther King che rompe le regole legali che istituivano la separazione razziale. Ora, grazie alla rottura che queste azioni operano nell’ordine, o meglio nel disordine stabilito, l’amore del nemico viene in soccorso della giustizia aiutandola a compiere il suo programma, la sua intenzione universalista. L’amore aiuta il senso della giustizia ad avvicinarsi al suo ideale.
Eravamo partiti da un modello di convergenza fra amore e giustizia, nel senso che la giustizia articola la spinta motivante dell’amore - è l’idea di un modello profetico di giustizia. Abbiamo poi valorizzato un modello di sproporzione fra amore e giustizia, sottolineando il carattere sovversivo e innovante dell’amore. Alla conclusione di questo secondo modello si palesa un (nuovo) rapporto di continuità fra amore e giustizia ottenuto questa volta attraverso la sproporzione: l’amore destabilizza sì l’ordine dato - che spesso è un disordine sostanziale, con i suoi limiti storici, le restrizioni etniche, i pregiudizi di classe e di casta - ma fa questo in modo che la giustizia possa avvicinarsi di più al suo ideale universalistico, possa tendere alla ‘perfetta giustizia’. E’ in quest’ultimo modello – che tiene insieme continuità e sproporzione - che possono essere classificate le attività caritative delle organizzazioni non governative, del volontariato, delle chiese e dei gruppi religiosi, attraverso le quali la caritas inserisce un sovrappiù di generosità, di dedizione, di compassione in un mondo di cui la giustizia non riesce da sola a limitare la violenza.